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Memorie di guerra del preside Sante Grillo, storico ed ‘eroe’ della seconda guerra mondiale -7

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Certa di fare cosa gradita ai lettori appassionati di storia e cultura, 

la redazione di “LoSpeakersCorner.eu” pubblica a puntate le memorie di guerra del preside Sante Grillo, che, durante il secondo conflitto mondiale, nel 1943, era Sottotenente del 454° Nucleo Antiparacadutisti di stanza a Scicli, in provincia di Ragusa.

Dedico questa mia piccola fatica ai miei cari lettori. Pochissimi, per la verità, ma non per questo meno cari e a … coloro che sono oggetto del mio affetto anche se non non tutti, oggi, possono percepirne il calore in questa nostra dimensione terrena.

Sante Grillo

           Clima di drammatica vigilia

A Scicli la federazione fascista si mobilitò in previsione di una chiamata alle armi per una difesa ad oltranza, casa per casa, e rastrellò un certo numero di “inabili” per istruirli all’uso delle armi.

A me, sinceramente parve una contraddizione fra l’affermazione che nessuno avrebbe potuto calpestare il suolo della madre-patria e la corsa alla mobilitazione di un sempre piccolo gruppo di persone che mi apparivano assolutamente inabili all’uso di qualunque arma, persino di un manico di scopa.

Lo sperimentai a mio rischio e pericolo quando, chiamato ad istruire il gruppo di loro sul lancio delle bombe a mano, mi vidi lanciare contro, io che stavo dietro al lanciatore, uno di quegli arnesi esplodenti. Fu un attimo, ma in quell’attimo vidi tutto ed il contrario di tutto: nello stesso tempo in cui la bomba percorreva in aria la sua parabola ascendente e discendente feci quello che solo si poteva fare, mi buttai a terra mentre l’esplosione lanciava in verticale frammenti di bomba, di sassi e di terra. Rimasi vivo ma mi vidi soccorso da tutti coloro che non avevano ben capito se fossi caduto per effetto della bomba o per effetto del mio spirito di conservazione.

In quella occasione, nel recuperare le bombe rimaste inesplose, l’ufficiale artificiere che mi accompagnava fu colpito ad un occhio, fortunatamente senza gravi conseguenze, da una piccolissima scheggia impazzita. Occorreva pur pagare un obolo a quella insulsa operazione di “guerra”.

Facemmo un’altra esercitazione per prepararci ad un eventuale sbarco con una azione in grande stile sull’ipotesi di una infiltrazione di truppe sbarcate ed avanzate oltre la linea della spiaggia. Fummo mobilitati tutti, compreso il mio reparto, che fu impegnato al di fuori del suo compito su una collina ai limiti perimetrali del paese.

A sera inoltrata dovetti segnalare con un colpo sparato dalla pistola Very che non c’era nulla di nuovo e che saremmo tornati alla base dopo aver avuto riscontro con un altro razzo che vedemmo saettare nell’’oscurità. Il giorno dopo avendo a  disposizione tutte le notizie dei reparti che avevano partecipato all’esercitazione, redassi una lunga e circostanziata relazione.

Per la mia parte scrissi che, calata la sera, non vedevamo al di là del nostro naso e potevamo muoverci soltanto accendendo dei fiammiferi, cosa che però non facemmo perché avremmo dichiarato la nostra presenza. L’osservazione non ebbe alcun riscontro e non fummo mai forniti di torce o di qualunque altra fonte di luce: evidentemente saremmo stati impiegati in ogni caso soltanto di giorno.

Per qualche tempo non si registrò alcunché di nuovo se non nell’animo di ciascuno di noi che subì l’influsso malefico di un qualcosa di indefinito che ci faceva stare con i nervi completamente tesi ed in uno stato di allerta che non sapevamo meglio definire ma che certamente era determinato dalle vicende negative che andavano concretizzandosi sempre più nere sui vari fronti di guerra.

Per i nuclei antiparacadutisti ci fu un momento di pausa determinato dall’organizzazione di un corso di aggiornamento da tenersi nella sede di Modica per tutti i comandanti dei nuclei stessi della zona e con la partecipazione di un gruppo di capitani appena richiamati alle armi, che sarebbero stati quindi smistati sul territorio per coordinare, ciascuno, un certo numero di nuclei. Fu quella un’inconsueta occasione per incontrarci dopo tanto tempo da quando eravamo partiti insieme dal Comando di Deposito del 3° Reggimento Fanteria.

Naturalmente, durante il corso, non apprendemmo niente di nuovo se non acquisire la certezza che avremmo perso molto della nostra autonomia in cambio di una diretta o quasi diretta sorveglianza di superiori che ancora non avevano acquisito la nostra esperienza e che certamente, non avendo una sede ben definita, sarebbero stati in ogni caso assenti da qualunque luogo ci fosse stato richiesto un impiego immediato.

Non ci fu data un’arma in più, non ci fu data alcuna informazione utile per conoscere meglio il metodo, l’armamento del nemico, non ci fu dato alcun segno premonitore di quello che ci sarebbe certamente accaduto, purtroppo in un futuro non più lontano.

In quella occasione non volli perdere l’abitudine di dire quello che pensavo e così non potei acquisire le simpatie dei nuovi superiori che si sarebbero certamente interposti fra quelli che già possedevo e che mi ero conquistati non senza qualche sacrificio.

In tutti i modi non potevo assolutamente prevedere quello che sarebbe accaduto nel brevissimo tempo a venire

Trasferimento a Ragusa

Ragusa è un capoluogo di provincia situato sui monti Iblei a 502 m. di altitudine. Ha circa 60.000 abitanti ed ha caratteristiche eminentemente agricole. Posto, come dicevo, sui monti Iblei su un declivio fortemente pronunciato come su una lunga lingua di terra  degradante fino a Ragusa Ibla. Era un importante punto strategico dove convergono le strade da Modica, Marina di Ragusa, Comiso, Vittoria ed Acate.

Ero sull’attenti in attesa che il comandante della 9° sottozona a cui mi stavo presentando in attesa che mi concedesse il riposo. Ma il colonnello dei Carabinieri che, seduto dietro la sua scrivania, sembrava non essersi accorto della mia presenza non dava alcun segno di attenzione. Tuttavia io mi sentivo scrutato ed osservato ed infine qualcosa si mosse. Il colonnello si alzò, sembrò venirmi incontro ma invece di tendermi la mano mi rimbrottò violentemente perché indossavo pantaloni fuori ordinanza.

Fu come un pugno sul viso perché avevo fatto di tutto per apparire nel modo migliore curando in particolar modo la divisa. Mi venne il dubbio che qualunque cosa avessi fatto per fare bella figura il mio nuovo comandante diretto avrebbe trovato in qualunque modo un motivo per rimproverarmi. Era chiaro che sostituivo un comandante di Nucleo che, sapevo, lui stimava moltissimo e che, dunque, la mia presenza lo disturbava moltissimo Ritenevo che ciò fosse quasi giusto ma di sicuro non mi aspettavo una uscita di quella fatta.

Cominciavo proprio bene: era destino che tutte le mie nuove conoscenze fossero dominate da un accento fortemente critico nei miei confronti.

Ero partito da Scicli molto addolorato per la nuova destinazione che mi era stata comandata per fonogramma, ed era chiaro che il mio animo era del tutto esacerbato da un fatto inatteso, imprevedibile ed altrettanto indesiderato, dovendo lasciare un ambiente a me notevolmente favorevole, ove qualunque nota poteva essere interpretata soltanto con l’ affetto che tutti, dico tutti, provavano per me. Affetto che io ricambiavo con uguale intensità e sincerità nei loro confronti, superiori e non. Non avevo avuto modo neppure di esternare questi miei sentimenti se non verso qualcuno perché il provvedimento era stato proprio un capestro. Il giorno successivo al fonogramma ero già in marcia verso Ragusa con tutto il mio reparto e con gli automezzi che ci seguivano a distanza. perché con lo stesso fonogramma si erano preoccupati di vietarci l’uso dei mezzi per raggiungere la nuova destinazione.

Il fatto mi sembrò come un provvedimento disciplinare, ma chi lo aveva emesso? Non volli neppure pensarci, e permeato come ero di una forma di subordinazione al destino, sgombrai l’animo da qualunque pensiero negativo e cercai di guardare avanti con un certo ottimismo.

Ottimismo che fu anche necessario mostrare ai miei soldati che mostravano di essere più neri di me: forse avevano lasciato qualcosa che certamente non avrebbero più trovato in un nuovo ambiente.

E poi, perché, visto che dopo aver fatto tanto per conoscere nel miglior modo possibile il territorio e la cui conoscenza poteva costituire una prerogativa non trascurabile in un eventuale scontro con forze sicuramente più armate di noi ma che non avevano la conoscenza diretta del terreno su cui avremmo dovuto operare?

Perché nell’imminenza di un quanto mai probabile sbarco di paracadutisti si cercava di imbrogliare le carte in modo da metterci in condizione di ulteriore inferiorità?

«Mistero della ragione»,  pensai che non stava a me sindacare, che i superiori sapevano sicuramente quello che facevano o forse lo sapevano troppo bene e i miei dubbi riaffioravano, questa volta con una ragione in più. Non mi fu dato di sapere se lo stesso scambio di sede fosse stato preso anche per tutti gli altri nuclei. In caso negativo il soggetto-oggetto sarei stato proprio io e per quale ragione non si sapeva e nessuno lo seppe mai.

In ogni modo ero sempre li in attesa che l’esame a cui ero sottoposto finisse e con lui finissero i rimbrotti riservati, secondo il mio pensiero, a tutti coloro che dovevano conoscere che: «Qui comando io, intesi?»

Per queste considerazioni mi guardai bene dal riproporre all’entrata del reparto il detto che mi costò un sacco di improperie proprio nel momento del mio primo impatto operativo con il comandante di reggimento costiero: «Cca nisciuno è fesso”. Però non mi nascondevo, proprio in fondo all’anima, che quel motto corrispondeva a quello che c’era dentro di me, tanto nel cuore quanto nel cervello. E se guardavo bene negli occhi i miei soldati vedevo in fondo che quel mio pensiero, poi non tanto recondito, era condiviso.

Il “riposo” mi fu dato con un certo ritardo seguito da raccomandazioni da fare rizzare i capelli per la loro prevedibile severità e poi la minaccia: Domani verrò al reparto.»

Finalmente era giunto il momento di andar via: calzai la bustina, feci il saluto militare e con un perfetto dietrofront uscii dalla stanza. Trovai il mio motociclista che mi aspettava e via incontro alla libertà.

C’era proprio bisogno di un poco d’aria e la velocità del mezzo me ne fece un graditissimo compenso. Il viaggio di ritorno all’accampamento mi diede la possibilità di rilassarmi e di riacquistare la mia abituale tranquillità, o per meglio dire, quella tranquillità che ero solito mostrare ai miei soldati.

Quando giungemmo al reparto gli uomini erano ancora intenti a sistemare alla bene e meglio l’accantonamento ma tante cose non andavano, anche se finalmente avevamo lasciato una stalla-tugurio per una costruzione a misura d’uomo: era una vecchia scuola  d’arte adattata ad accogliere un reparto di soldati. I problemi c’erano ed anche grossi e occorreva risolverli ma io non avevo alcuna voglia di affrontarli, almeno in quel momento,  e pertanto li rimandai tutti al giorno dopo.

Fu invece il mio motociclista che mi rincuorò alquanto raccontandomi cose che diversamente non avrei mai saputo. Venendo al comando di sottozona, nel tempo in cui io ero stato trattenuto dal colonnello comandante, lui si era invece fermato a parlare con l’autista personale del colonnello. Si erano infatti riconosciuti perché entrambi di Ragusa e già conoscenti di vecchia data.

Ecco, in sintesi, quello che aveva saputo confermando, infatti, le mie supposizioni sullo stato d’animo del colonnello comandante: il tenente comandante il nucleo di stanza a Ragusa era entrato nella simpatia del comandante, godendo quindi di condizioni privilegiate dettate dalla stima e dall’affetto. Spessissimo andavano insieme a fare ricognizioni presso gli altri nuclei alla dipendenza della sottozona e pertanto si erano instaurate le migliori condizioni possibili per un reciproco rispetto.

Il dispetto ed il dispiacere della sua partenza era stato poi ulteriormente esacerbato dalla telefonata del colonnello comandante il reggimento costiero ai cui comandi ero rimasto per molto tempo che gli aveva presentato la mia persona come un ufficiale brillante ed all’altezza di ogni situazione. Dinanzi a tale dimostrazione si era ulteriormente indispettito e, posato il telefono, aveva esclamato quasi con rabbia: «Il colonnello mi vuol vendere gioielli falsi.” Fu così che la mia persona perse ogni caratteristica umana per abbracciare quella di oggetti di nessun valore o, ancor peggio, addirittura falsi.

Doveva andare proprio così: i mali non vengono mai da soli ed alla partenza dolorosa a cui ero stato costretto e di cui non ho mai compreso i motivi, diciamo, tattici o strategici si aggiungeva, allora, un trattamento di cui non mi sentivo affatto meritevole.

Tuttavia il pensiero che le soddisfazioni si conquistano sul campo mi incitò ad alzare la testa ed a guardare in faccia una realtà che in quel momento non mi era certamente favorevole. Alla fin fine era accaduto qualcosa che – almeno quella – non mi era sfavorevole. Il caso aveva voluto che, senza volerlo, avevo infiltrato una “talpa” nell’ufficio comando di sottozona.

Il giorno successivo il colonnello, così come aveva promesso, venne all’accantonamento ma non trovò niente in ordine anzi trovò che tutti, in una grande confusione, si davano da fare per rimettere a posto tutto quello che in un certo senso era stato in un primo momento messo a soqquadro. Una squadra si era data da fare per spazzare, lavare  e pulire il pavimento delle varie stanze dove il materiale che avrebbe dovuto trovare sistemazione: era invece ammassato alla rinfusa in un disordine pazzesco.

Nel locale destinato alle cucine si era in un gran da fare per sistemare meglio i fornelli ed infine in un gran bidone che ci eravamo procurati erano stati messi a bollire le decine di teli delle brandine mentre le stesse parti in ferro erano state sottoposte al trattamento della nafta spennellata in maniera decisa e precisa dove necessario.

Che cosa era accaduto? Lo dovetti necessariamente spiegare al colonnello che non si rendeva perfettamente conto di ciò che stava succedendo e perché. La spiegazione fu molto semplice da parte mia e finalmente l’incipiente ira del colonnello si affievolì notevolmente: il fatto è che in una ricognizione neppure tanto attenta ci eravamo accorti che i lettini con materassi e tutto il resto erano infestati in maniera indecente da cimici per cui stavamo correndo ai ripari. Le bordure dei materassini erano addirittura nere per il gran numero di insetti. Non mi rendevo conto di come i soldati che ci avevano preceduto non avevano sofferto dell’invasione e non avevano sentito neppure la necessità di porre rimedio alla infestazione.

Comunque il colonnello cominciò ad ammorbidirsi e si distese del tutto quando facendogli vedere quello che stavamo facendo nella cucina, gli precisai che, per risparmiare combustibile – in questo caso la legna – stavamo predisponendo dei fornelli in sequenza in modo che il fuoco centrale servisse anche per gli altri fornelli prima di prendere il via nella canna fumaria. La cosa era molto semplice, ma parve impressionare benevolmente il comandante.

Cominciavo a segnare il primo punto a mio vantaggio. Se ne andò con un «Ci vedremo domani.» Mi sembrò piuttosto una mezza minaccia che una promessa. Secondo me il giorno successivo era ancora troppo presto.

Visite e controvisite

Il giorno successivo fu un giorno che definirei molto laborioso: I miei soldati si dettero un gran da fare per mettere a posto tutto quello che occorreva mettere al giusto posto nel modo più adatto e con grande effetto per colui che fosse venuto per la prima volta. Fu in questa grande attività che ci trovò il colonnello che, per la verità, rimase alquanto sorpreso nel vedere tutta la camerata allineata e coperta in tutto ciò che c’era dentro: i letti , i materassi arrotolati alla stessa maniera, le coperte con le strisce bianche perfettamente allineate, il pavimento risplendente e lucido come se fosse stata passata la cera.

Volle vedere l’armeria, e qui rimase veramente ammirato perché anche quelle apparivate pulitissime e allineate, come se fossero state appoggiate in apposite rastrelliere. Non disse nulla, non voleva ancora esprimersi perché forse pensava che ancora non era giunto il momento per mostrarsi soddisfatto. Compresi tuttavia la sua buona impressione dalla frase che pronunciò al momento di andar via. «Spero di vederti così anche all’opera sul campo.» Non era molto, ma a me fu più che sufficiente.

I giorni successivi furono impiegati ad addestrarci sui “Beretta 40” che ci avevano consegnato negli ultimissimi tempi: erano fucili a quaranta colpi che potevano sparare in rapida successione o a colpi isolati, aveva un unico caricatore per tutti i colpi ma presentava qualche piccolo difetto: doveva essere usato in piedi o in ginocchio perché il caricatore, molto lungo, avrebbe toccato per terra se si fosse voluto sparare sdraiati. Inoltre, presentava la possibilità che potesse mettersi a sparare da solo se fosse stato appoggiato con una certa forza con il calcio. Constatammo tutto questo in linea teorica  perché non avemmo mai in dotazione le cartucce- Senza il corredo dei caricatori potevano essere paragonati purtroppo a manici di scopa.

Intanto, se nel frattempo riuscivo a conquistarmi l’animo del colonnello, il mio cuore ed il mio cervello erano tormentati dalle notizie che pervenivano, anche se frammentarie, dai vari fronti di guerra e non potevo nascondermi che aumentava con l’evidente disagio, anche il desiderio e la nostalgia della famiglia che non vedevo ormai da moltissimo tempo.

Che la guerra si avvicinasse sempre più minacciosa lo constatammo dalle più frequenti incursioni aeree. Incursioni che si facevano più minacciose e costringevano a pensare che ormai non c’era molto da aspettare. I quadrimotori volavano ormai molto bassi a mano a mano che le difese contraeree si facevano più deboli. Era uno spettacolo terrificante vederli così immensi con i pancioni carichi di morte che inesorabilmente venivano scaricati sul campo di aviazione di Comiso dopo essere passati bassissimi sulle nostre teste.

Ragusa non possedeva alcuna difesa né territoriale né contraerea: tutti i presìdi erano stati trasferiti e sul territorio eravamo rimasti noi, del nucleo antiparacadutisti, ed il presidio del distretto militare, fra l’altro ridotto ai minimi termini con personale non idoneo per reparti combattenti.

Chiesi al comandante di poter godere della licenza e mi fu promessa dopo che avessi provveduto alla costruzione di alcune trincee di difesa nei punti strategici della città. L’ordine era giunto dai comandi superiori come un rimedio sicuro contro un  nemico, che, una volta messo piede in Sicilia, si fosse presentato, sic et simpliciter, alle porte di Ragusa.

L’ordine mi fu passato come se io fossi stato un ingegnere  del genio esperto di difese passive. Tuttavia mi misi in moto, feci le mie brave ricognizioni e quindi con alcuni grafici che riportai con un lucido sulla carta topografica espressi la mia opinione pratica  disegnandole sulle grandi strade di entrata della città e la presentai, per il suo esame e la sua opinione, al colonnello.

Per la verità quando le vide non solo le approvò, ma ne rimase addirittura entusiasta, soprattutto per il modo con cui le avevo non solo concertate ma anche per come le avevo espresse sulla carta: per la verità ne sapeva certamente meno di me.

Mi misi subito all’opera con i miei soldati e dopo un lavoro massacrante perché lavoravamo sulla roccia affiorante potemmo consegnare, diciamo, il lavoro ultimato. La mia licenza fu ulteriormente rimandata perché giunse l’ordine di costruire un riparo per il camion onde evitare che, rimanendo all’aperto, potesse essere oggetto di avvistamento da parte della ricognizione aerea nemica. Da ingegnere della difesa passiva divenni un ingegnere edile e potei presentare un progetto per la costruzione in muratura del riparo.

Gli Anglo-americani intanto avevano occupato la Tunisia e le nostre truppe si erano arrese con l’onore delle armi. Ormai erano alle porte e certamente il braccio di mare che li separava dalla Sicilia non era troppo vasto per pensare che fosse impossibile valicarlo.

L’aeroporto di Comiso doveva essere diventato un immenso colabrodo per le numerosissime volte in cui era stato oggetto di terrificanti bombardamenti aerei.

Pantelleria, intanto, si arrendeva agli Anglo-americani dopo circa una settimana di intensi bombardamenti aerei e navali. Ormai le truppe mancavano di acqua e di viveri, almeno questo fu il comunicato di guerra, e l’ordine di resa fu dato direttamente dal capo del governo. Lo spazio tra noi e il nemico si restringeva ulteriormente.

In una mattinata in cui eravamo intenti a completare il garage venne all’improvviso un’ispezione da parte del comando di corpo d’armata con a capo addirittura un generale accompagnato dal colonnello comandante la sottozona e vari altri ufficiali specializzati in amministrazione e via di seguito. L’ispezione fu attenta e minuziosa alla camerata, all’armeria, alla cucina, al lavoro che stavamo facendo ed io stesso fui sottoposto ad innumerevoli domande sull’addestramento, sull’impiego delle armi, sul morale dei soldati, sull’impiego in caso di necessità, sulla bontà dei mezzi che avevamo in dotazione. Fu un esame universitario su tutti i fronti, anche quello tattico.

Quando finalmente fui libero perché l’ispezione era finita vidi che il generale era alquanto perplesso. In un secondo tempo seppi i motivi di questa perplessità dalla bocca dello stesso colonnello che mostrò di essere felice come una Pasqua. In altri termini il generale non era del tutto convinto che la situazione del Nucleo fosse continua e non occasionale e dovette intervenire lo stesso colonnello per assicurargli che lo stato del nucleo era quotidiano ed esemplare così come il generale in persona aveva potuto constatare.

Per questa visita ebbi un posticino d’onore  con una citazione sull’ordine del giorno del Comando di corpo d’armata. Venni a conoscere la notizia dal comando di sottozona ma non ebbi mai modo di leggerla di persona. Fui felice ugualmente perché avevo sommato a mio favore un altro punticino di merito.

Come conseguenza immediata ci fu  che il capitano addetto alla sorveglianza ed al coordinamento dei nuclei e che era di stanza a Ragusa fu spedito altrove perché nella sede non c’era bisogno della sua presenza. Così mi toglievo dalla scarpa una altra pietruccia su cui ero stato costretto a camminare da quando avevo mostrato con chiarezza e senza infingimenti quanto il capitano stesso mi stesse sullo stomaco. Mi venne persino a salutare non senza un po’ di rammarico, forse pensando che fossi stato io stesso l’artefice di quel provvedimento. Non lo avrei fatto in nessun caso perché mio padre mi aveva insegnato che non dovevano parlare le persone ma i fatti ed i fatti avevano parlato a mio favore.

Avemmo un giorno di grande fatica quando fu segnalata la caduta di paracadutisti. Non c’era stato nessun lancio ma potemmo vedere direttamente uno spettacolo impressionante di un quadrimotore di ritorno verso Malta che a velocità ridotta cercava di guadagnare il mare.

Un caccia, che sembrava un moscerino rispetto alle proporzioni dell’immenso aereo, lo stava prendendo a bersaglio girandogli intorno più e più volte  con delle micidiali mitragliate indiavolate. Ho sentito grande ammirazione per quel pilota.

Non sapevo se era un tedesco o un italiano ma in quel momento ed in quelle condizioni meritava il massimo del rispetto.

Ad uno ad uno poi vennero fuori dall’aereo i membri dell’equipaggio per salvarsi con il paracadute. Il caccia non infierì sui paracadutisti ma continuò a mitragliare l’aereo che non voleva cadere in alcun modo. Vedemmo poi in lontananza forse ormai all’altezza del mare il velivolo perdere quota e poi non lo vedemmo più. Non andammo a recuperare  i paracadutisti perché ormai erano lontani dalla nostra giurisdizione e toccava ad altri adempiere a quel compito di recupero.

Tornammo nella nostra caserma quando già era sera tarda ed eravamo stanchissimi per aver percorso una strada assolutamente impraticabile e con salite e discese da far dispetto persino ad un alpinista. Le mie “cipolle” agli alluci destro e sinistro erano cotte, proprio, è il caso di dirlo, stracotte.

Quella stessa sera il colonnello comandante mi comunicò per telefono che il giorno successivo mi avrebbe firmato la licenza: non me la dava quella stessa sera perché doveva provvedere prima alla mia sostituzione.

Il giorno dopo non ebbi la licenza ma la comunicazione che eravamo in allarme rosso. Non era preallarme come qualche altra volta era accaduto, ma allarme vero e proprio. I miei Penati si stavano scordando di me.

Come seppi in un secondo tempo, la flotta americana e quella inglese si erano mosse in massa dai porti algerini e tunisini e non c’era più un’altra Pantelleria da conquistare.

Dove sarebbero andati a finire? Che cosa sarebbe accaduto? Quali piani di sbarco avrebbero adottato?

La mia mente e la mia logica mi facevano sapere che quasi con millimetrica precisione sarebbero sbarcati proprio sulle spiagge di Marina di Ragusa che era situata dinanzi ai nostri occhi. Perché? Perché, e loro lo sapevano meglio di noi,  in questa zona non avrebbero trovato una resistenza degna di questo nome oltre una prima ed una seconda fila di fucilieri armati di fucile modello ’91 in trincee scavate nella sabbia e con un retroterra assolutamente sprovvisto di difese attive o passive che fossero. Non ci voleva una mente preparata alla più grande strategia per capire una elementare condizione di facilità per uno sbarco, anche non in grande stile.

Seguirono giorni di calma apparente intervallati da scoppi, che sembravano non coordinati ma che servivano certamente a tenere gli animi in tensione continua    Comunque nel reparto parlavamo poco e non saprei dire il perché, forse ognuno maturava un certo progetto ed aveva timore di chiarirlo agli altri. Certo è che i soldati avevano molto più contatto con la popolazione e potevano, meglio di quanto potessi fare io, conoscerne l’umore, le attese, i timori o forse anche le speranze.

Sicuramente non aveva sortito un effetto favorevole un proclama, che si leggeva su tutti i muri, del generale Roatta, il quale, rivolgendosi ai Siciliani suonava in un certo modo come se la Sicilia fosse un protettorato o un lembo di terra che non faceva parte della madre patria italiana. Infatti cominciava così: «Siciliani, aiutate i camerati Italiani e tedeschi etc etc…”.» Non vado oltre perché ancora oggi mi sento ferito fino in fondo a tutto il mio essere Italiano per educazione, per convinzione profonda, per inalterato sentimento.

L’animo era sempre più triste e non c’era voglia di ridere e di scherzare, quando invece eravamo abituati a conversare felicemente fra di noi senza eccessive differenze di grado e di cultura. Sentivo l’affetto dei miei uomini e li ricambiavo di tutto cuore ma sentivo anche che c’era anche molta prudenza nelle loro parole. Forse direi meglio reticenza per qualcosa che sapevano e che non azzardavano pronunciare. Era forse presentimento? Si, penso di si.

Tutto faceva pensare che eravamo giunti all’epilogo, un epilogo disastroso per tutti, che annullava il domani più che per l’incertezza, per una certezza questa volta assolutamente negativa: ce la sentivamo sullo stomaco, nei sogni, e soprattutto nei pensieri.

Il colonnello mi mandò a chiamare: mi comunicò che l’allarme era finito e mi consegnò la licenza firmata, dovevo soltanto aspettare il giorno dopo, fin quando fosse arrivato il tenente che doveva sostituirmi. Mi si allargò l’animo come se mi sentissi in paradiso, in una splendida luce di gioia. Così, dopo averlo ringraziato, ebbi finalmente la forza di sorridere contenendo invece la voglia di esplodere in un urlo di liberazione.

Tornato all’accantonamento firmai la licenza a due miei soldati che come me avevano atteso il loro turno di partenza. Dopo pochi momenti erano già spariti per prendere il primo treno possibile. Ero completamente rilassato, con i nervi finalmente distesi e con una felicità che non riuscivo più a nascondere: il giorno dopo sarei partito, sarei partito, capite? Partito per andare a casa, per vedere la mia famiglia anche se in formato ridotto perchè uno dei miei fratelli, il maggiore, comandava una batteria di artiglieria campale in quel di Castelvetrano ed il minore, ma sempre più grande di me, sottufficiale dei Carabinieri sperduto nei contrafforti dell’Albania. Mio padre, sottufficiale dell’esercito, era ancora in forza presso il Comando Deposito del 3° Reggimento fanteria di stanza a Messina.

Solo mia madre non era sotto le armi ma in compenso viveva le vicissitudini di ciascuno di noi con gli occhi al cielo e con la preghiera sulle labbra. Povera mamma! L’avrei rivista e riabbracciata da li a poco, il tempo che la “vaporiera” mi portasse come una lumaca  fino alla fermata della mia stazione di Messina. Quella scelta di tempo mi avrebbe portato distante dalla febbricitante ansia che, a mano a mano, stava per prendermi l’animo ed il cuore. Mi preparai la valigia e cominciai ad attendere, felice, finalmente felice. (Fine settima parte)

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