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'Se un uomo non ha il coraggio di difendere le proprie idee, o non valgono nulla le idee o non vale nulla l'uomo' (Ezra W.Pound)

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AttualitàCaserta e Sannio

Luigi Di Bella, il Poeta della Scienza

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Il volume, minuziosamente documentato e ricco di indicazioni delle fonti, dipana la
complessa figura del Prof. Luigi Di Bella esaminandola sotto il profilo scientifico,
morale, intellettuale e umano. Difficile non giungere alla conclusione che sono state
proprio queste qualità e virtù a procurargli, per buona parte della vita, un’ostilità
incessante che non di rado si è fatta autentica persecuzione. Il lettore rimane, oltre
che indignato e amareggiato, anche stupefatto per la capacità dell’uomo di non farsi
annichilire da un’opposizione tanto indiscriminata e violenta e di riuscire a compiere
egualmente la sua opera.

Luigi Di Bella, siciliano, classe 1912, era nato in una famiglia numerosa e di assai
disagiate condizioni economiche, non in grado quindi di sostenere le spese per fare
studiare quel ragazzo, nonostante avesse precocemente dimostrato rare doti
d’ingegno e di forza di volontà. Luigi sopportò sacrifici di ogni genere per soddisfare la
sua sete di sapere e superare le ristrettezze della povertà, arrivando anche a studiare
la sera in piedi, sotto la luce del lampione della strada, per sopperire alla penuria di
petrolio per la lampada.
Fornisce ben presto le prove di un ingegno straordinario: avendo frequentato le scuole
complementari che, non contemplando l’insegnamento del latino, non consentivano
l’accesso al liceo scientifico, in due mesi apprende il latino, lasciando increduli i
commissari durante la prova di idoneità prescritta. Per rendersi economicamente
indipendente ed aiutare i fratelli, parteciperà anche ai concorsi nazionali riservati agli
studenti poveri e meritevoli, vincendo tutti quelli che affronta.
Divenuto studente della facoltà di medicina a Messina, la sua abitudine di studiare
oltre che sui libri di testo anche su ponderose ed ostiche monografie (oltre ovviamente
alle sue rare capacità di assimilazione), gli procura un ”pubblico” di docenti
universitari che corrono ad assistere ai suoi esami. Viene notato dal prof. Pietro Tullio, considerato il più autorevole fisiologo del tempo – due volte candidato al Nobel per la medicina nel 1930 e nel 1932 (1) – che gli propone di diventare allievo interno pressol’Istituto di Fisiologia.

Attraverso il suo maestro, Luigi Di Bella si forma nell’ambito di
quella scuola medica che il mondo ci invidiava, annoverando luminari come Augusto
Murri e Pietro Albertoni, considerati i più grandi medici dei tempi moderni. Non
potendo soffermarci troppo su queste due figure di medici e professori universitari, ci limitiamo a riferire che raggiungevano percentuali elevatissime di diagnosi esatte,
92% Murri e 98% Albertoni (2), in un’epoca nella quale gli esami ematochimici erano
ben più rudimentali di quelli odierni, e non esistevano TAC e risonanze magnetiche. A
quel tempo l’insegnamento e la ricerca nell’ambito della medicina non erano disgiunti dalla pratica clinica, l’eccessiva specializzazione non aveva ancora contaminato ognisettore, e la fisiologia era ancora considerata la materia cardine di tutto il sapere medico, non essendo altrimenti possibile comprendere ed applicare razionalmente tutte le altre.

Questo consentiva il raggiungimento di livelli di eccellenza diagnostica
attualmente inarrivabili.

Se pensiamo ai pazienti che oggi sono costretti a peregrinare tra specialisti e ospedali, spesso orfani di diagnosi – e quindi di efficace terapia – nonostante l’elefantiasi di esami di ogni genere, non si può rimanere che sconcertati.

Luigi Di Bella è stato senza dubbio l’epigono di quella mentalità e cultura medicoscientifica che ha annoverato eccellenze quali Antonio Cardarelli, Pietro Lussana, Giuseppe Moscati, oltre che i luminari prima citati. E’ a quest’ultimo, il medico santo di Napoli, che Luigi Di Bella più si avvicina, oltre che per mentalità clinica, per umanità e condotta di vita cristiana.

Il primo lavoro scientifico che riporta il nome di Luigi Di Bella (oltre ovviamente a
quello del maestro) risale all’inizio del 1932, quando è ancora diciannovenne e
studente del secondo anno di università. Lo stesso Tullio, qualche anno dopo,
dichiarerà in un attestato di essersi limitato a curarne la bibliografia. Nel luglio 1936 si laurea in medicina con 110 e lode, dopo aver sostenuto 12 esami in più rispetto a
quelli regolamentari.

Subito dopo la laurea riceve una proposta di assunzione da parte di Guglielmo Marconi
– allora presidente del CNR – perché continui le ricerche in campo chimico che gli
erano valse l’ultimo premio nazionale (è ancora disponibile il carteggio intercorso).
Luigi Di Bella declina l’invito, dichiarando che desidera continuare le sue ricerche
nell’ambito della medicina. Riceverà dal grande fisico una borsa di studio.

Quando nel 1938 consegue le lauree in Farmacia ed in Chimica, già da due anni, dopo avere superato brillantemente il previsto concorso, è incaricato dell’insegnamento della Fisiologia e della Chimica Organica presso l’Università di Parma. Durante questo periodo pubblica un libro di chimica organica.

Il 3 settembre 1939 sposa Francesca Costa, e prende servizio nel ruolo di aiuto
incaricato presso l’Università di Modena, città nella quale si trasferisce con la famiglia.

Dall’unione nasceranno Giuseppe (maggio 1941) che intraprenderà anche lui la
professione di medico, e Adolfo (dicembre 1947).
Il 3 settembre 1941, con il grado di Capitano Medico, viene inviato in Grecia, dove
dirigerà due ospedali militari. Qui si sottopone ad ogni sacrificio pur di aiutare i malati, arrivando a donare loro il suo pasto da ufficiale ed a dormire in piedi, appoggiato ad una colonna, per poter accorrere più velocemente alle richieste d’aiuto.

Raccontando anni dopo questi particolari, si limiterà a commentare: “Dopo un po’ ci si abitua”. Alla fine, le immani fatiche sostenute presenteranno il conto: la salute degrada sempre più e all’inizio del 1943 rientra in Italia per una breve licenza.

Le condizioni però peggiorano ulteriormente e viene ricoverato all’ospedale militare di Bologna per epatite, anemia e malaria. Posto in “licenza speciale in attesa di trattamento di quiescenza”, si riprende gradualmente e riesce ad iniziare l’insegnamento per l’anno accademico 1943-44. A seguito dei bombardamenti alleati su Modena della prima metà del 1944, la famiglia Di Bella trova ospitalità in una casa colonica a Bastiglia, paese ad una dozzina di chilometri dalla città. Anche qui non sta con le mani in mano: visita gli abitanti dei dintorni che hanno bisogno e, nonostante i pericoli, si reca quotidianamente all’università in bicicletta.

Nell’immediato dopoguerra iniziano a delinearsi le prime ricerche che lo porteranno
anni dopo all’ideazione del suo metodo di cura per i tumori. In questo periodo si
scatena una persecuzione durissima da parte dell’ambiente accademico, quantomeno nella facoltà di medicina, che non gli perdona limpidezza morale, superiorità d’intelletto e di cultura che lo caratterizzano. Gli studenti al contrario lo idolatrano, affollando le sue lezioni, a tal punto che durante l’occupazione studentesca del 1968 Luigi Di Bella sarà l’unico professore che gli studenti autorizzeranno ad entrare nell’università per svolgere le lezioni.

Inizia a diffondersi anche la sua fama di medico capace di fare diagnosi di
un’esattezza inarrivabile, e di risolvere situazioni ritenute senza speranza dai medici
più blasonati. Anche questo contribuirà ad alimentare quelle invidie e quella
persecuzione che non gli daranno tregua fino all’ultimo dei suoi giorni. Dirà un giorno: “A questo mondo, è rigorosamente proibito fare del bene”.

I malati, che per tutta la vita visiterà gratis arrivando a regalare loro le medicine, giungono sempre più numerosi, grazie al “meccanismo di passaparola”. Spesso sarà costretto a visitarli la sera – già sfinito da una intera giornata di lavoro – o la domenica presso la propria abitazione. Intervistato nel 1998 per la RAI da Don Giovanni D’Ercole, alla domanda “Ma lei non si fa pagare?” risponderà: “No, mi ripugna: uno viene qui perché ha bisogno, e io dovrei guadagnare sul bisogno di un altro?” (3)

Inflessibile con se stesso, fa dell’umiltà e dell’autocritica una regola di vita,
chiedendosi sempre se ha davvero fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità ed il
proprio dovere di medico e di uomo (3). Così come il denaro, anche il lusso gli
ripugna: “La povertà e l’essenzialità sono più vicine alla realtà di tutto. Il lusso per me
è una sovrapposizione all’essenziale, e quindi il mezzo migliore per deviare dalla retta via……la rinuncia è la dote essenziale di un uomo per progredire e per realizzare.
Bisogna saper rinunciare a tutto quello che non è essenziale” (3).

Quando, decenni dopo, durante una intervista gli verrà chiesto come ha fatto a trovare la cura per il cancro senza avere dietro un’università o un centro di ricerca iperfinanziato, risponderà: “In una maniera semplice: rinunciando a tutto quello che non è necessario per vivere. In questa maniera le spese le ho ridotte al minimo, e tutto quello che potevo risparmiare l’ho dedicato alla ricerca” (4).

I “baroni” dell’università di Modena lo relegano in un’angusta stanzetta dell’istituto di
Fisiologia e gli impediscono, di fatto, di compiere ricerche, negandogli i fondi
accademici a cui avrebbe diritto ad accedere. Lo scienziato sarà per questo costretto ad indebitarsi per costruirsi un suo laboratorio privato che, una volta portato a termine nel 1952, gli consentirà di proseguire la sua attività di ricercatore. Intensifica anche la partecipazione a congressi medici e scientifici in Italia e all’estero, mentre continua a pubblicare i risultati delle sue ricerche.

Al termine della sua vita, si conteranno 215 pubblicazioni e un centinaio di comunicazioni in congressi.

Al rigore scientifico unisce sempre la sensibilità per il bello. Per lui queste due
dimensioni sono inscindibili. Non c’è solo la bellezza delle arti figurative e della
musica, che ama profondamente, ma anche l’infinita bellezza del Creato e degli intimi
meccanismi che rendono possibile la vita. Ogni volta che, da ricercatore qual è, riesce
a far luce su qualcuno di questi meccanismi, prova un profondo rapimento spirituale
per la bellezza e la perfezione che vi intravede. In altre parole, è la meraviglia e lo
stupore di chi giunge a scorgere quella particella di eternità che l’uomo incorpora in
sé.
Soltanto un poeta della scienza può arrivare a dire: “Un medico può considerarsi tale
solo se ama l’ammalato ed è affascinato dall’ignoto, se cerca di far luce sui misteri del
Creato e di confrontarsi con questi”. E agli ammalati dona tutto se stesso, prendendo
parte alle loro sofferenze: “Lei non immagina la sofferenza che mi viene ad ascoltare
le sofferenze del prossimo, ad essere incapace di togliere queste sofferenze, almeno
subito” (3). Quando visita, veste i panni di sacerdote in camice bianco. Molti pazienti
avvertono istintivamente il bisogno di confidargli le loro pene interiori o i loro problemi
familiari, e non pochi escono dalla visita letteralmente sconvolti nell’anima. Riportiamo
per brevità solo un paio di esempi. Una signora, afflitta nel corpo e nello spirito,
afferma: “E’ come se mi avessero messo una telecamera dentro al cuore e all’anima.
Ha letto in me cose che non sa e non capisce nessun altro, e addirittura mi ha
spiegato cose di me stessa che non riuscivo a comprendere. Un’esperienza
sconvolgente che non dimenticherò finché avrò vita”. Un’altra, arrivata in uno stato di
prostrazione profonda, esce trasformata: “Mi ha ridato la voglia di vivere. Non me ne
frega niente se mi salvo o se muoio tra un mese o una settimana….Avere conosciuto
un uomo così vale la vita. Sono serena”.
Nel 1963 Maria Teresa Rossi, una sua studentessa, gli si avvicina al termine di una
lezione per chiedergli un consiglio sulla grave malattia che la affligge, il lupus
eritematosus, a causa del quale i medici le hanno prospettato al massimo due anni di
vita. Lo scienziato la visita e le prescrive una terapia. La ragazza, da tutti chiamata
Deda, ne ricava presto netti benefici e in pochi anni diventerà una valida collaboratrice
nelle ricerche del professore, il quale arriverà ad amarla come una figlia. E i due anni
di vita residua, grazie a Luigi Di Bella, diventeranno ventiquattro.
Dopo un complesso e faticoso iter sperimentale, il 6 dicembre 1973, invitato a tenere
una conferenza presso la sede della Società Medico Chirurgica di Bologna dal Prof.
Domenico Campanacci, il più illustre clinico italiano del dopoguerra, presenta il
razionale e i primi risultati clinici della metodologia messa a punto per patologie
ematologiche (successivamente perfezionata ed estesa ai tumori solidi). Riceve
l’appoggio e la considerazione, oltre che del Prof. Domenico Campanacci, dell’illustre
ematologo Edoardo Storti, del fisiologo Giuseppe Moruzzi, e di Emilio Trabucchi,
famoso farmacologo. Ma neanche costoro, dall’alto della loro autorevolezza, possono
vincere il montante potere delle aziende farmaceutiche e l’ostilità di un’oncoematologia che, invece di offrire collaborazione, si sente scavalcata e surclassata da
quello scienziato che aveva osato dare concrete possibilità di salvezza a malati
altrimenti condannati. Vale ricordare che nel 1973 si conoscevano solo 500 casi di
leucemia in tutto il mondo sopravvissuti per più di 5 anni. Gli unici interessamenti
genuini gli arrivano dall’estero: medici ed istituzioni ospedaliere di ogni parte del
mondo lo contattano e si informano sui princìpi della sua cura. Il numero dei pazienti
che accorrono da lui, grazie anche alle testimonianze dei malati curati e ad alcuni
articoli pubblicati su diversi periodici, aumenta fino a livelli insostenibili. Anche perché
non cura solo i tumori: la sua impostazione squisitamente fisiologica della medicina,
unita ad un raro ingegno ed alla conoscenza profonda di tutte le branche della scienza
medica, gli consentono di curare con successo diverse patologie, specialmente
neurologiche e neuromotorie.
Vale la pena soffermarsi brevemente sul valore delle ricerche che lo hanno condotto a
formulare il suo Metodo di cura dei tumori. Già nel 1969 aveva relazionato (Alghero,
congresso della Società Italiana di Biologia Sperimentale) sugli esperimenti con cui
aveva dimostrato l’influenza del sistema nervoso centrale sulla crasi ematica (si
trattava della stimolazione, nei ratti, di una determinata zona del cervello vicina alla
ghiandola pineale, che portava a forti aumenti delle piastrine in circolo). Fino a quel
momento nessuno aveva intuito che il sangue, e quindi le concentrazioni delle sue
componenti, potessero essere influenzate e determinate a livello cerebrale. Già solo
tale scoperta, che porterà lo scienziato ad introdurre la melatonina (prodotta
principalmente dalla ghiandola pineale) come uno dei cardini della sua cura, avrebbe
meritato, come osservarono alcuni studiosi, il premio Nobel per la Medicina.
L’estensione della cura ai tumori solidi risale alla metà degli anni ’70, quando nel suo
Metodo introduce la somatostatina. E’ il primo al mondo a proporre l’uso di questa
sostanza per le patologie tumorali. Ancora oggi il suo impiego terapeutico in oncologia
è limitato ai soli tumori neuroendocrini, nonostante migliaia di pubblicazioni, tra le
quali quelle di premi Nobel come V. Schally (5), che ne dimostrano l’efficacia in
un’amplissima varietà di patologie neoplastiche.
Nel frattempo, già un anno dopo la presentazione della sua cura, era stato vittima,
mentre era nell’istituto di Fisiologia, di un tentativo di avvelenamento da cui riuscì a
salvarsi intuendo la causa dei gravi sintomi che avvertiva e prendendo le opportune
contromisure.
Poco tempo dopo subirà diversi inspiegabili incidenti per le strade di Modena, mentre
era in sella alla sua inseparabile bicicletta. L’ultimo attentato avverrà nel 1996
mentre, ormai ottantaquattrenne, si reca in bici al suo laboratorio per visitare i malati:
colpito alle spalle con un sacco di sabbia, finirà a terra e si risveglierà in ospedale con
un trauma cranico, una commozione cerebrale e la compromissione dell’udito ad un
orecchio. Nonostante ciò, appena riavutosi ha un’unica preoccupazione: chiede di
essere dimesso, si fa accompagnare in laboratorio e, con ancora le bende macchiate di
sangue, inizia a visitare i malati che lo attendevano all’ingresso.
Intervistato negli anni ’90 da un canale televisivo, lascia a bocca aperta la giornalista
che gli chiedeva, viste le mille difficoltà attuali e quelle incontrate nella sua vita, quali
fossero le sue gratificazioni: “Non ho bisogno di gratificazioni. Sono arrivato ad una
semplice morale che a volte meraviglia anche i miei figli: ringrazio il Padreterno per la
sofferenza che m’ha dato, perché attraverso la sofferenza ho imparato cos’è la vita”
(6).
La famigerata sperimentazione del 1998 richiederebbe una trattazione troppo lunga.
Quello che è importante sottolineare è che non fu Luigi Di Bella a chiederla, ritenendo
egli che l’ampia letteratura scientifica disponibile e la casistica raccolta avrebbero da
tempo dovuto consentirne l’adozione. Il Ministero dalla Sanità preferì ignorare tali
pubblicazioni, decidendo di organizzare una sperimentazione che, per i presupposti di
partenza e poi per la sua conduzione, aveva l’esito già scritto. Basandosi
esclusivamente su documenti ufficiali (Rapporti Istisan 98/17 e 98/24), si rileva infatti
che condizione fondamentale per l’arruolamento fosse “essere non suscettibili, o non
più suscettibili di trattamento”: in parole semplici, dovevano essere malati tanto gravi
da far considerare inattuabile qualsiasi tentativo terapeutico (chirurgia, radioterapia,
ormonoterapia, chemioterapia). La sopravvivenza stimata dagli sperimentatori andava
da un minimo di 11 giorni (!) ad un massimo di 90. E’ un ben curioso criterio quello di
ritenere efficace una terapia solo se riesce a replicare il miracolo di Lazzaro, salvando
malati terminali e candidati all’assistenza domiciliare! Sempre sulla base della
documentazione ufficiale si rileva un altro inquietante “mistero”: ad onta della
reiterata affermazione che il Prof. Di Bella avesse accettato queste condizioni ostative,
non esiste un documento ufficiale che attesti dove e quando lo scienziato avrebbe
firmato i protocolli della sperimentazione; ed anzi risulta agli atti uno schema
autografo e da lui firmato il 31 gennaio 1998, totalmente incompatibile con gli schemi
terapeutici praticati.
L’esito così precostituito venne ulteriormente presidiato con numerose altre anomalie,
costituenti obiettivamente e autonomamente cause di invalidazione (7): 3-4 farmaci
previsti sui 10 del sopra richiamato schema autografo; interruzione del trattamento
nell’86% dei casi; galenici somministrati dopo la data di scadenza o resi tossici dalla
presenza di acetone (soluzione di retinoidi); somatostatina somministrata senza
indispensabile impiego di siringa temporizzata, ecc. Ma, a parte quanto sopra, la
demolizione della validità di questo studio fu fatta da uno scioccante Editoriale
comparso su quella che dai più è ritenuta la più autorevole rivista scientifica del
mondo (BRITISH MEDICAL JOURNAL – Marcus Mullner: “Di Bella’s therapy: the last
word?” – BMJ, 1999, 318, 208). L’editoriale, dopo alcune severe critiche (mancanza di
randomizzazione e di gruppo di controllo), conclude: “…è proprio il progetto scadente
di questo studio a non essere etico…..Il progetto di questa sperimentazione è
fallace..”.
Il vero miracolo (mai comunicato all’opinione pubblica) fu che, nonostante quanto
osservato, il 48% dei pazienti risultava in vita al termine della sperimentazione
(Rapporti Istisan: 167 pazienti in vita al 31 ottobre 1998 su 347 pazienti ‘valutabili’),
nonostante che la prognosi di massimo 90 giorni (la prova iniziò nel marzo 1998 e si
concluse il 31 ottobre dello stesso anno) facesse prevedere il decesso di tutti i 347
pazienti arruolati. Nel follow-up del giugno 1999 risultavano ancora in vita 88 arruolati
(25%).
Malgrado le amarezze, le perfidie subìte e le delusioni, Luigi Di Bella continuerà la sua
attività di medico fino al termine della sua vita, vincendo la stanchezza ed i crescenti
problemi di salute. A chi tenta di farlo desistere almeno dalle visite ai malati che si
presentano senza appuntamento, lui risponde con semplicità disarmante: “Se vengono
qui, è perché hanno bisogno”. Per tutta l’esistenza ha combattuto la “buona battaglia”
ed ai figli che, in uno dei momenti di maggiore ostilità e attacchi crescenti, gli avevano
chiesto se non fosse il caso di ritirarsi cercando di badare alla sua salute, aveva
risposto: “Non capite che io sono sempre stato un lottatore?” Lascerà questo mondo il
1° luglio 2003, a pochi giorni dal suo 91° compleanno. Qualche mese prima aveva
scritto: “Sono degno? Lo diranno gli altri. L’animo mi dice tuttavia che non sono
vissuto inutilmente, perché ho fatto del bene ed ho gioito per il bene fatto”.
Infine, qualche osservazione sul Metodo Di Bella: si tratta di una cura squisitamente
fisiologica, impostata cioè sui princìpi della fisiologia, la disciplina che studia il
funzionamento degli organismi viventi, dai fenomeni macroscopici fino ai più piccoli
legami molecolari. Per dirla in breve, è la scienza che studia la vita e i meccanismi con
cui essa si esprime. E’ una materia fondamentale e alla base di tutte le altre discipline
mediche, e non a caso, nel degrado voluto e pianificato della medicina attuale che va
di pari passo col degrado di tutta la civiltà, essa è stata ridotta e svilita nei programmi
universitari a tal punto che lo studente arriva a laurearsi in medicina capendone poco
o nulla. Il tumore, inoltre, è una malattia sistemica e multifattoriale, per cui non potrà
mai essere guarita da un unico rimedio. Non a caso, il metodo Di Bella comprende un
numero ben nutrito di diverse sostanze fisiologiche, farmaci e princìpi vitaminici, la cui
composizione è stata studiata per avere azione sinergica e fattoriale, per cui l’effetto
di ognuno è impressionato e potenziato dall’assunzione di tutti gli altri. Per ciascuna di
queste componenti sono comparsi negli anni un’infinità di studi sulle riviste
scientifiche (attualmente ammontano a qualche decina di migliaia) che ne dimostrano
l’efficacia antitumorale.
Un altro fatto significativo sono i circa 1000 casi documentati di efficacia del metodo
Di Bella pubblicati su riviste scientifiche accreditate e peer review, rintracciabili
agevolmente sul portale www.pubmed.gov . Tra le pubblicazioni più recenti, quelle sui
pazienti con tumore alla prostata e alla mammella, molti dei quali hanno avuto
remissione della malattia senza chirurgia, senza radioterapia e senza chemioterapia,
ma unicamente con il Metodo Di Bella. Si tratta peraltro di casi documentati nella
maniera più scrupolosa, con diagnosi e successivi accertamenti strumentali effettuati
in strutture pubbliche o private. Per comprendere l’eccezionalità della pubblicazione,
occorre evidenziare che in tutta la letteratura scientifica mondiale non esiste un solo
caso pubblicato di tumore solido guarito con qualsivoglia strumento farmacologico o
radiante. Considerando che circa 180.000 persone in Italia muoiono ogni anno a causa
di patologie tumorali, quante vite si sarebbero potute salvare se la sperimentazione
del 1998 fosse stata condotta in maniera corretta ?
Tanti altri aspetti del Metodo, della pseudo-sperimentazione e della vita dello
scienziato, oltre ad una ricca documentazione fotografica, sono riportati nel volume “Il
poeta della scienza” scritto da Adolfo Di Bella, che ha voluto affidare a questa
biografia una testimonianza unica: quella di una vita trascorsa accanto ad un genio e
benefattore dell’umanità.

L’articolo Luigi Di Bella, il Poeta della Scienza proviene da BelvedereNews.

(BelvedereNews – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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